mercoledì 25 giugno 2014

La Nazionale e l'equivoco di base

Eccoli, i Mondiali. Impazientemente attesi, come sempre. E, una volta di più, deludenti. Per i contenuti e anche per quello che circumnaviga la kermesse tutta. Kermesse partita c on fatica: tra polemiche, contestazioni popolari, problematiche strutturali e lutti. E lievitata male, anche tecnicamente: Spagna subito fuori, Italia ed Inghilterra pure, Portogallo e Russia a rimorchio, Brasile zoppicante, Argentina così e così. Dove le indecisioni arbitrali (poche, fortunatamente) fanno discutere – e non solo a queste latitudini – e determinati comportamenti, sul campo, lasciano pensare. Un nome per tutti, Suárez, artigliere dell’Uruguay che sa mordere. In tutti i sensi: dietro un pallone e sulle spalle dell’avversario. Nel caso specifico, Chiellini: uno dei simboli dell’Italia debole e molle che perde il confronto diretto e che se ne torna immediatamente a casa. Suárez è sangue bollente e istinto feroce, si sa. Ed è, soprattutto, recidivo: il campionato inglese, dove si esibisce settimanalmente, ci offre altri episodi del medesimo spessore. Peccato, però, che il suo selezionatore Tabárez, universalmente ricordato come persona garbata e per bene, argomenti di falso moralismo o di moralismo a buon mercato, oltrepassando il limite del diritto alla tutela del proprio attaccante. E quello del buon senso. Anche perché la morale c’entra poco: lasciando stagnare un gesto volgare, ma soprattutto violento. Che il regolamento, almeno nel pallone, sanziona. Punto. E poi c’è Mario Balotelli. Arrivato in Sudamerica più sereno del solito, in gol contro l’Inghilterra e, infine, affondato dalle critiche esterne e dal risentimento dello stesso spogliatoio azzurro. Figurina o no, il ragazzo ha sostanzialmente fallito la prova, l’ennesima. Dentro e fuori dal campo: se e è vero, come rivela un organo di stampa, che avrebbe digerito assai male un rimprovero di Prandelli durante l’intervallo del match con l’Uruguay. Si parla persino di oggetti volanti, in quei momenti: situazione, questa, che gli sarebbe costata la sostituzione e, dopo il novantesimo, gli acidi attacchi di Buffon e De Rossi. Ma, del resto, le esperienze di questi anni ci spingono a pensare che il commissario tecnico abbia voluto provare a vincere una sfida, evidentemente persa: quella di trasportare Balotelli da uno status di eterna e acerba promessa a quello di pedina decisiva e internazionalmente proponibile. Sacrificando, magari, il minor tasso tecnico e atletico e la superiore affidabilità di altri. Rimasti a guardare: davanti ad un televisore o in panchina. Eppure, non ci sta neppure bene che il fallimento della Nazionale in Brasile possa essere unicamente ascritto a Balotelli. I punti sono altri: è mancata la mentalità della squadra che sa quello che vuole, ha difettato l’autorità nelle situazioni di gioco più determinanti. La formazione dell'ormai dimissionario Prandelli, contro Costa Rica e Uruguay, non ha saputo imporsi, mai. Attendendo l’avversario, sempre e comunque. Piegandosi, anche, all’ineguagliabile stress del campionato italiano, che toglie puntualmente qualcosa alla freschezza atletica e alla brillantezza del gruppo. Ma, soprattutto, è riemersa quella verità che conoscevamo da tempo e che, in tanti, si sono affrettati a disconoscere o a dimenticare per convenienza: il livello del calcio, sotto le Alpi, oggi è questo. Piaccia o no pure a chi, in Italia, adesso sta vincendo. E anche abbastanza agevolmente.

lunedì 12 maggio 2014

Etici sì, autolesionisti no

Questa storiella tutta italiana del codice etico applicato al pallone (meglio ancora, alla Nazionale gestita da Prandelli) comincia onestamente a sanare. Giusto per esprimersi in lingua corrente e diretta. Primo, perché – in campo – contano innanzi tutto la tecnica, la tattica, l’ardore e qualche altra qualità. Mentre il perbenismo si persegue anche con punizioni esemplari, magari: da applicarsi nel campionato, se il reato è consumato all’interno della competizione. E in campo internazionale, se la mala azione è consumata con la casacca azzurra. Senza dover necessariamente ricorrere a operazioni un po’ bacchettone, tanto per intenderci. Secondo, perché - in prossimità dei Mondiale – la questione rischia di finire seppellita da tonnellate di polemiche: molte delle quali assolutamente gratuite, dunque inutili. Soprattutto se altri cattivi pensieri si accodano a quelli di sempre. E, terzo, perché l’argomento presuppone seriamente un pericolo male calcolato: quello di tramutarsi in un feroce autogol. Pericolo dai cui effetti, peraltro, il coach sta cominciando a contrapporre le prime contromisure: ignorando semplicemente il problema, quando è il caso di ignorarlo. Ma, al di là di tutto, le fondamenta del concetto così caro ai vertici federali e allo stesso commissario tecnico scricchiolano non poco, ormai. Chi sbagliava, pagava: da De Rossi a Balotelli, da Osvaldo a Criscito. Così è stato, sin qui. L’ultimo sanzionato, in ordine di tempo, si chiama Destro: quattro giornate di squalifica rimediate nel corso di questa stagione e, di conseguenza, il blocco delle convocazioni con la selezione principale. Colpevole sino in fondo oppure no, non importava: bastava la prima sanzione, per innescare la seconda. La penultima giornata di campionato, invece, dispensa un altro caso spinoso: nel match di Roma, dove la Juve arriva già scudettata, Chiellini si libera fallosamente di Pjanić. Il direttore di gara non vede e non interviene: ma le telecamere spiano, come sempre. Materiale buono per applicare la prova tv: tre giornate a Chiellini. Quanto basta per bloccarlo pure in ottica Nazionale: come accaduto per Destro e per altri, prima di lui. Ma il Mondiale si avvicina. E si avvicina davvero. E il difensore toscano non si sostituisce facilmente. Condizione sufficiente per scartare l’ipotesi del gesto violento: Prandelli, cioè, l’assolve. Con coraggio e pragmatismo. Annunciando di volerlo inserire ugualmente nella lista dei trenta preconvocati per il Brasile. E smentendo, così, se stesso e la linea etica perseguita da quattro anni. Pensiero di una sera di maggio: Destro, e chi come lui, non sono pedine imprescindibili. Chiellini sì. Etici sempre, ma non autolesionisti. E tatticamente accorti. E’ l’Italia che va. E’ l’Italia che deve andare.

lunedì 28 aprile 2014

Il Torino e la domenca di troppo

Il quattro maggio è il giorno della memoria, nella Torino granata. E anche in tutta l’Italia del pallone. E ogni quattro maggio, da sessantacinque anni, si sale sul colle di Superga, per raccogliersi e per ricordare. E’ un rito, una tradizione. Un’esigenza. Questa volta, il quattro maggio coincide con la domenica del pallone. Che segue il sabato del pallone e procede il lunedì del pallone: il sistema, si sa, progetta il business e pretende che sia festa tutti i giorni (ma poi, in fondo, che sarà mai: e poi ci siamo un po’ tutti abituati, forse perché ci va benone anche così). Ad ogni modo, domenica quattro maggio si gioca. O meglio: gioca anche il Torino, a Verona, sponda Chievo. Come da calendario: quello che, puntualmente, viene stravolto da anticipi e posticipi più o meno telegenici. Ma, se il Torino gioca, la partecipazione al giorno della memoria diventa un’operazione logisticamente quasi proibitiva. La soluzione, però, esisterebbe. Semplice semplice. Dirottare il match in altra data. Posticiparlo: come Juventus-Atalanta. O come Napoli-Cagliari. Oppure, anticiparlo. Troppo semplice: dunque, improponibile. La Lega si oppone: il calendario è confezionato, ormai. Oppure: è opportuno salvaguardare la regolarità del torneo. Perché il Torino, tanto tempo dopo, torna a mirare ad un piazzamento Uefa. Che è il medesimo obiettivo dell’Inter, del Parma e del Milan. Ma anche della Lazio e del Verona: che infatti, incrociano i tacchetti con ventiquattr’ore di ritardo. Di lunedì, appunto. Ma anche perché il Chievo deve ancora conquistarsi la salvezza. Esattamente come il Sassuolo, che però torna in campo martedì. Il Torino, a questo punto, si sentirà pure ingiustamente defraudato di un diritto: possiamo facilmente immaginarlo. Ma chi non possiede, all’interno del Palazzo, un peso politico specifico si sforzi di scovare una motivazione. Oppure ne prenda atto. In silenzio, possibilmente. Tanto, è lo stesso. E chi possiede un attimo di tempo per pensare, probabilmente, si sentirà sufficientemente raggirato. Problemi suoi, comunque. La Lega e il movimento calcistico del Paese più buffo d’Europa sono blindati dalle proprie certezze, dalle proprie convinzioni. Peggio per il Toro, se ogni sette anni il quattro maggio è domenica. E se ogni domenica si continua a giocare, magari in quattro o cinque campi: con le curve chiuse, dentro stadi fatiscenti, sul filo di polemiche roventi e risse da osteria, in mezzo ai venti del razzismo becero, nel vortice cieco della sudditanza psicologica della classe arbitrale, producendo un prodotto tecnicamente scadente. Va tutto bene così com’è: e il Palazzo è felice. Si adeguino tutti, piuttosto. E poi, se in Brasile l’Italia dovesse resistere ai pronostici che assistono la concorrenza e regalarsi un altro titolo mondiale, chissà come e chissà perché, qualcuno tornerà anche a raccontarci quell’antica barzelletta: è tutto merito del campionato più bello e più organizzato dell’universo. Allora, però, la gente non sospetterà neppure di essere stata raggirata, una o più volte. E, sicuramente, alla barzelletta crederà pure. Spacciandola per storia vera.

lunedì 17 febbraio 2014

Conte, la verità come difesa

La Juve contro la Juve. Il presente contro il passato. L’allenatore della rinascita contro i ricordi più dolorosi e la storia più scomoda. Il peso specifico di Antonio Conte contro il pensiero appuntito di Fabio Capello. Forse non si amavano, i due. Certamente, ora si stanno detestando. Mentre la società, confusa, assiste. E la tifoseria, disorientata, s’interroga. Dalla Russia, il vecchio coach puntualizza, suggerisce, sentenzia. Quel lunedì punitivo somministrato da Conte alla squadra, immediatamente dopo il pareggio di Verona, non gli è piaciuto. Lui, Capello, non avrebbe agito così: è per il dialogo, sempre. Non per la pena incondizionata.. E poi quel campionato italiano, così poco competitivo, è tremendamente fuorviante, quando si parla di Europa. Ma il nuovo caudillo della Göba non apprezza. Sino a sbottare. Come avviene spesso, quando è necessario difendere il gruppo. Il proprio lavoro. O la propria immagine. La risposta è veemente: come se Capello guidasse l’Inter di Milano, piuttosto che la selezione nazionale del Paese di Putin. Veemente come ai tempi di quella battaglia legale e verbale ingaggiata con la giustizia sportiva, mesi fa. Conte contro Capello: è una questione di confronti, all’ombra dei successi. Eppure, il primo fa sapere di non ricordare né il predecessore, professorino senza il culto del rispetto, così diverso da Lippi e Trapattoni, né la sua Juve. Scavando, anzi, Conte qualcosa ricorda: la Juve dei due scudetti cancellati a tavolino. Quelli sì, ancora indelebili. Proprio quegli scudetti che il popolo juventino si tiene, invece, stretti. E che la società stucchevolmente continua a rivendicare. All’improvviso, cioè, il disconoscimento più rumoroso di un certo passato parte dalla stesse viscere del club. Non piove dall’altra parte della barricata, ma nasce al di dentro di quell’ecosistema che, sin qui, ha protetto il concetto di legittima paternità di un risultato ritenuto fraudolento. Un avvenimento epocale, dunque. Che rischia di alterare persino determinati equilibri, all’interno del club. E che, secondo i più maligni, starebbe per spianare la strada ad un più o meno imminente divorzio. Chissà. Involontariamente oppure no, intanto, il tecnico salentino ricorda alla gente di ogni fede e colore e alla sua stessa società quello che gli almanacchi e la realtà delle cose stanno cercando di farci capire da un po’ di anni: il numero civico delle vittorie ufficialmente intascate è il ventinove e non il trentuno. Forse, una verità troppo grande da nascondere e un equivoco troppo evidente da sopportare. Anche per un personaggio sanguigno e aggressivo come Conte. Anche per un guerriero inossidabile e ferocemente mourinhizzato come l’allenatore più chiacchierato d’Italia. E, adesso, persino meno antipatico di quanto avremmo pensato immaginare.

mercoledì 29 gennaio 2014

Nocerina, sentenza prevista. E scontata


Certe notizie si attendono. Perché è da un po’ che se ne parlava. E, si sa, determinati verdetti non sfuggono dal segreto di un’istruttoria o di un procedimento legale solo per caso. Perché, tante volte, sembra davvero tutto già scritto: molto prima che la giustizia si pronunci. Certe sentenze sono previste. Perché il fatto (la sospensione forzata di Salernitana-Nocerina) era e resta grave, chiassoso, mediaticamente voluminoso. E perché il rischio di incentivare il rampantismo delle frange più radicali del tifo organizzato esiste e intimorisce. Certe sentenze sono gradite. Perché placano la sete di giustizia della collettività. Perché tranquillizzano l’uomo della strada e lo sportivo comune. Lasciandogli credere che tutto è sotto controllo, che il sistema funziona, sempre e comunque, che tutto va come deve andare. L’esclusione della Nocerina dal campionato di competenza, quello di terza serie, a lavori ancora in corso, era oggettivamente scontata. E scontate erano pure le sanzioni ufficialmente inflitte in mattinata dalla Commissione Disciplinare a dirigenti, tecnico e giocatori (alcuni) del club. Quello stesso club che, peraltro, se l’è anche chiamata: fluttuando tra reticenze, piccole e grandi bugie, ripensamenti e cattiva gestione della situazione. Prima, durante e dopo il derby della vergogna. Finendo per pagare a caro prezzo. Perché l’Italia del pallone è un po’ stanca. Di tutto. Perché un esempio serve ad educare. Perché qualcosa avrebbe dovuto pur accadere. Perché, in fondo, questa è soltanto serie C. Perché quello di Lega Pro è, di fatto, un angolo già mortificato dall’imminente risistemazione dei campionati. E perché, magari, Nocera Inferiore è periferia della Repubblica, lontana dai circuiti del potere, dal cuore della finanza e dalla fede delle maggioranze. Una Nocerina in meno non abbaglia, non stride e, soprattutto, non guasta mai. Semmai, addolcisce l’amaro. Del resto, chissà, altrove una situazione del genre non sarebbe neppure accaduta. Perché il tessuto sociale, anche nel calcio, può incidere. E perché, in categorie più elevate, la soglia di attenzione dwgli addetti ai lavori è più marcata e anche gli indirizzi di autocomportamento sono mediamente più saldi. Fosse capitato tutto più in alto, però, il problema sarebbe diventato più scottante, più scomodo, più pesante. E il verdetto, probabilmente, meno previsto, meno atteso.    

martedì 21 gennaio 2014

Thohir, lezione numero uno


Rafforzarsi o ripianare. Guardare avanti, oppure tutelarsi. Evolversi o galleggiare. Spegnere la sete d’ambizione, oppure scontrarsi con la storia. L’Internazionale di Milano naviga tra il recente passato, troppo ingombrante, e il prossimo futuro, che già assomiglia a certi angoli bui frequentati per decenni, prima di tornare a vincere tutto. Moratti non c’è più. Non in prima linea, almeno. Ma c’è Thohir, indonesiano senza lo scrupolo della passione, presidente un po’ distante – anche geograficamente – che sgorga da una cultura diversa e da differenti esperienze di vita e d’affari. Vendere, prima di acquistare: è questa la strategia. Mai accaduto, a certi livelli. Dove, chi arriva, deve ritagliarsi il consenso. Vendere. O, al massimo, scambiare. Provando a guadagnarci qualcosa, magari. Il mercato di gennaio, intanto, è pronto a soccorrere il progetto. Emerge, così, l’idea: caricarsi l’ingaggio di Vučinić, che la Juve di Conte non apprezza più come un tempo, liberandosi contemporaneamente di Guarín: uno che, però, all’Inter di Mazzarri continuerebbe a servire. Soprattutto di questi tempi: in cui i risultati sgorgano faticosamente. Solo che, sotto la lente di una prima e sommaria analisi popolare, lo scambio appare tecnicamente sconveniente. Al di là del conguaglio da stabilire. La gente e l’opinione pubblica, cioè, non perdono troppo tempo a valutare la situazione e, immediatamente, bocciano il disegno. Che, in realtà, è assai più che un disegno: Vučinić ha già sostenuto le visite mediche a Milano. E altrettanto, a Torino, ha fatto Guarín. Come dire: è tutto già deciso, stabilito. Ma l’anima interista sobbolle, istigata da certi precedenti: le manovre congiunte con la Juventus, troppe volte, si sono rivelate deludenti, anacronistiche. Una fregatura, ecco. Ci sono ancora sacche di buona memoria, in questo Paese. E la tifoseria riconosce facilmente l’ingenua società di un tempo. La sollevazione mediatica, tuttavia, funziona. E, si dice, Moratti ci mette qualcosa di suo: una telefonata. Thohir, allora, decodifica il disagio e intuisce il pericolo di scollamento dell’ambiente. Planando sulla questione con pessima tempistica, ma con definitiva autorità. Stop, trattativa saltata. Rimane tutto com’è. Branca, se resterà, si regoli diversamente. L’opera di risanamento, chissà, proseguirà ugualmente. O anche no. Però senza il sapore acre dell'adiratissima Juve nel palato. Rafforzarsi o galleggiare: il problema, per il momento, si agita ancora. Ma le prime indicazioni gestionali arrivano dalla base, piaccia o no. Thohir, probabilmente, non se lo sarebbe mai aspettato: ma il calcio delle passioni e del campanile è anche questo. Lezione numero uno.

lunedì 13 gennaio 2014

La poltrona di cartone del vicereame



Galliani, Barbara Berlusconi: due poltrone per un solo vicereame, quello del Milan.  E due personalità unite da un fragile ed inconfessabile segreto: per l’effetto del quale l’anziano plenipotenziario, quanto prima, toglierà il disturbo. Al di là delle dichiarazioni di comodo. Perché in certi ambienti è così: tutto va bene, sino a nuovo ordine. E, dietro, l’ombra incombente del padrone Silvio. Che ha già deciso di rinnovare: proprio tutto. E, contemporaneamente, di salvaguardare l’armonia di famiglia: e ci mancherebbe, del resto. Quel padrone che, da tempo, non ama Allegri. E che, nel tempo, più volte ha provato a defenestrare. Senza riuscirci. Incocciando proprio nella dura corteccia di Galliani. Questa volta, però, è davvero finita. E non solo per il tecnico, travolto da un ragazzo che si chiama Domenico Berardi e che arriva da Cariati. Travolto dal Sassuolo. E travolto, innanzi tutto, dal suo stesso destino, già tracciato e persino pubblicizzato con anticipo larghissimo: sei mesi. E’ davvero finita, nel frattempo, anche per il Richelieu più longevo d’Italia. Al quale era stata recentemente affidata la titolarità dell’area tecnica. Costata anche abbastanza: cioè, la cessione dell’area amministrativa e organizzativa. Barbara, però, scalpitava e scalpita ancora. Consapevole di possedere spalle larghe e, soprattutto, coperte. Sufficienti, alla prima occasione utile, per intervenire duramente. La figura magra di Sassuolo è inaccettabile, detta. E, immediatamente dopo, cala il sipario. Due poltrone sono troppe, in un vicereame. Solo una regge. L’altra è puro cartone. E le bugie, nel calcio prima che altrove, affiorano presto.

sabato 4 gennaio 2014

Il tradimento e la scelta



Vladimir Petković è un signore di garbo infinito e di atteggiamenti glaciali. Arrivato alla Lazio, all’inizio della scorsa stagione, piacque sùbito. Alla gente che ama il pallone, alla tifoseria che affolla la curva nord dell’Olimpico e, infine, a Claudio Lotito, il suo datore di lavoro. Bella presenza, buone maniere, un buon sistema di gioco e, proprio in coda al campionato, una gran bella soddisfazione: la Coppa Italia. Non un trofeo qualsiasi, per chi vince saltuariamente: soprattutto, se la finale è anche un derby. Il derby di Roma. Ma le situazioni si evolvono. E alcune si involvono. La Lazio perde qualcosa. Non si rafforza. Lo spogliatoio si inquieta. Probabilmente, Petković perde pure un po’ di peso specifico. I risultati corrono dietro agli avversari, troppo spesso. La squadra, cioè, non sa ripetersi. Contemporaneamente, il tecnico bosniaco comincia a piacere alla Federazione svizzera, che cerca un nuovo driver, da giugno in poi.  Il flirt sfocia nell’accordo, assolutamente legittimo: proprio a giugno scade il contratto con la Lazio, è tutto in regola. L’allenatore stenta a pubblicizzare la novità. Infine, la Federazione Svizzera rompe il silenzio e diffonde un comunicato ufficiale. Petković, a fine stagione, saluta l’Italia e passa il confine. Lotito, in realtà, la prende male. Molto male. Anche se, di fatto, cerca da tempo di liberarsi del tecnico e di affidare la Lazio a qualcun altro. Magari, risparmiando su un ingaggio. Niente, Petković non si dimette. Non si muove. Sino a giugno. A meno che non arrivi l’esonero. Ed è proprio questo l’ultimo atto: il presidente si inventa anche il licenziamento per giusta causa. Per tradimento. E se si trattasse, invece, di semplice legittimazione della titolarità di una scelta? Lasciare un incarico per assumerne un altro, altrove: talvolta, succede. Anche se i padroni della nostra quotidianità, da un po’, si sono abituati troppo bene.

giovedì 5 dicembre 2013

Rumo ao hexa

Dunque, si parte. Più o meno ufficialmente. Prima, i sorteggi dei gironi: proprio in questi giorni. Poi, la scelta delle location: affinché chiunque possa prepararsi come meglio conviene. Infine, tutto il resto. Anche se gli stadi non sono ancora ultimati. Malgrado troppi inconvenienti separino la teoria dalla realtà. Nonostante un dibattito acceso animi e attraversi la società brasiliana. Profumo di Mondiali, diciamo così. Netto e delineato. Ovunque e, innanzi tutto, nel più grande dei paesi del Sudamerica. Dove non esiste alternativa al successo: per una questione di blasone, ovvero di tradizione. Perché, ovviamente, giocare in casa è tutta un’altra cosa. E infine perché, dall’altra parte del mondo, una formazione europea non ha mai vinto il titolo. Tra orgoglio, sicurezza, nazionalismo e passione, striscia pure un po’ di arroganza. E’ quell’istinto di superiorità, quel quoziente di presunzione che, del resto, corteggerebbe tutti: l’Argentina, se i tacchetti si incrociassero, la prossima estate, tra Baires e Rosario. La Germania, se la palla rotolasse a Monaco o ad Amburgo. La Spagna, se la kermesse fosse ospitata ad ovest dei Pirenei. L’Italia, se il campionato si disputasse a queste latitudini. E potremmo continuare. Di certo, però, da un po’ di settimane la macchina organizzativa brasiliana, la stessa federazione verdeoro e l’ambiente tutto provano ad alzare il livello di tensione emotiva. E non solo per occultare le proposte, lo spessore intellettuale e il sèguito, anche e soprattutto mediatico, del Bom Senso FC, che poi è un movimento di recente costituzione, autogestito da calciatori impegnati nel Brasileirão e da addetti ai lavori, ormai convinti dell’improcastinabile necessità di modificare vecchie abitudini e calendari agonistici. In queste giorni, anzi, ci mette del suo Felipe Scolari, il commissario tecnico della Seleção: il Brasile, afferma candidamente, vincerà il Mondiale. Semplice e chiaro. Rumo ao hexa, allora. Proviamo a guardare un po’ più in là e capiamo le intenzioni: i problemi, dal punto di vista organizzativo, non difettano e occorre pur cominciare ad accendere l’opinione pubblica. A coinvolgere la gente. Il problema, però, è che la nazione pentacampeã  ha già ospitato i Mondiali, esattamente sessantatre anni fa. Perdendoli. Davanti ad un Maracanã lotado e a un Uruguay irriverente. Fu un disastro, allora: e non soltanto dal punto di vista squisitamente calcistico. Anche quella volta, il Brasile si avvicinò al torneo favorito, orgoglioso, sicuro di sé e arrogante. Non bastarono Ademir, Zizinho e Jair. Poi, il Paese intero si abbattè su Barbosa, il portiere vessato e, quindi, dimenticato. Il duemilaquattordici, invece, è il tempo di Neymar, ma anche dei Luís Gustavo, degli Hulk, di Bomfim Dante. Tutt’altro materiale, onestamente. Che la vittoria nell’ultima Confederation Cup della Seleção, peraltro, rischia di aver sovrastimato eccessivamente. Ci pensi un attimo, Felipão, prima di sbilanciarsi ancora.

lunedì 2 dicembre 2013

Piccoli tifosi crescono

Certe curve esagerano. Molte sono recidive. Nella zona più franca che c’è, scranni del Parlamento a parte, si ripetono ingiurie, inni beceri, minacce, apologie di reato e chissà che altro. La nuova ondata repressiva del Palazzo colpisce qua e là: risvegliando le proprie coscienze, prima ancora di quelle del nemico più o meno dichiarato. Ieri, pagava il popolo più fedele alla Juventus: curva chiusa alla professione del tifo, come da sentenza recente della giustizia sportiva. Ma un settore totalmente vuoto, in uno stadio, non è uno spettacolo decente. Soprattutto, se l’impianto è nuovo e polifunzionale: dunque, assolutamente a norma e perfettamente agibile. Il club, allora, prova ad aggirare l’ostacolo. E, anche meritoriamente, propone di dirottare su quegli spalti un oceano di bambini, con le proprie famiglie. Chiamatela operazione-simpatia o come preferite: certe iniziative vogliono rappresentare un messaggio, una speranza. E, poi, impreziosiscono la retorica che soffia sempre forte negli studi delle televisioni generaliste o nei fondi di qualsiasi colonna di giornale. Ben vengano, quindi. Nel mezzo di Juventus-Udinese, però, quell’oceano di gioventù candida e gaudente si lascia trasportare. E fuorviare. Sarà per il palcoscenico che lo ha accolto. Sarà per le cattive abitudini che viaggiano per il web e che, perciò, si autopubblicizzano, corrodendo la nostra quotidianità. Sarà per il progressivo imbarbarimento dei costumi, che così velocemente spazza questo paese. E sarà anche perché chi accompagna i giovanissimi festanti - gli adulti, evidentemente - non pensa neppure per un secondo a limitare gli effetti di un entusiasmo che va al di là del garbo (giusto: in Italia si può fare e dire di tutto, perché intervenire e interferire sullo show che avanza?). Comunque, ad ogni rimessa dal fondo di Željko Brkić, il portiere serbo della formazione friulana, corrisponde puntualmente un controcanto persino spiritoso, ma ugualmente offensivo. Che, indubbiamente, finisce per ammaccare le finalità di un’iniziativa incoraggiante. Lasciandoci pensare seriamente che ogni goccia di speranza, in realtà, va guadagnata con lavoro duro e profondo: sulla mentalità dell’italiano medio. E che tanti piccoli tifosi, nella penisola, crescono. Male.

sabato 30 novembre 2013

La giovane rampante e l'antico Richieleu


Lei è giovane, bella, rampante, aggressiva. Erede designata di un impero calcisticamente robusto. Si chiama Barbara. E, di cognome, fa Berlusconi: un marchio di fabbrica. Lui è l’antico Richieleu del pallone italiano, uomo di lotta e di governo, di rustica passione e sottile managerialità. Si chiama Adriano Galliani, plenipotenziario del club più titolato, in Europa. Più del Real, come confermano le statistiche ufficiali. Immagine e sostanza della società: tra storia e futuro. Lei spinge, sgomita, si arrampica, guadagna spazio, accusa e sentenzia. Certe logiche sono sorpassate. Determinate amicizie non convincono. Alcune strategie vanno aggiornate. E così via. Lui, galantuomo vecchia specie (certifica persino José Mourinho, avversario epocale), incassa, assorbe, deglutisce. E assiste con aplomb: prima di decidere. Prima di pubblicizzare il prossimo (e apparentemente scontato) disimpegno. Con una dichiarazione rilanciata immediatamente da ogni agenzia di stampa, da qualsiasi sito web, da tutta la stampa nazionale e internazionale. Salvaguardando, magari, la serena quotidianità del Milan e della squadra: che, a breve, si giocherà la qualificazione alla seconda fase di Champion’s. In attesa di un risveglio, seppur graduale, in campionato. La guerra è generazionale: il nuovo che avanza, il vecchio che resiste. Ma non solo: è anche una battaglia più terrena, che si evolve tra mancate empatie, negli spazi ristretti che non ammettono più di un unico sovrano. Lei delegittima il governatore di quasi trent’anni di calcio. Lui capisce che è il momento di lasciare. Con classe, va riconosciuto. Con garbo. Senza strattonare. Ma il padrone del battello, tra i mari burrascosi della sua vita politica e privata, non può cancellare la storia, come se niente stesse accadendo. Silvio Berlusconi rompe il silenzio e, proprio al novantesimo, come quasi sempre succede, interviene. Solidificando, se mai ce ne fosse bisogno, le referenze del suo amministratore delegato, amico di sempre e compagno di avventura consumato. E’ tutto a posto, nel Milan non esistono correnti, non c’è spazio per la discordia. Tutto a posto, Galliani ha scherzato. Non ci saranno dimissioni: né dopo il match di Coppa con l’Ajax, né mai. Il Richelieu di casa nostra rimane. E governerà ancora a lungo. Con Barbara, Silvio troverà una soluzione. L’immagine è salva. E pure la sostanza. Anche se Galliani, in fondo, aveva capito il problema, accettato la realtà: il rinnovamento, molte volte, è necessario. Purché suffragato dalla forma: tradita nei fatti. Quella forma a cui non rinuncia, piuttosto, il padrone del Milan. Senza badare troppo, magari, all’essenza del problema. Che resta. Barbara da una parte, Adriano dall’altra. E, in mezzo, una frattura profonda.

lunedì 25 novembre 2013

L'urgenza che cancella la boutade


Avevamo dribblato i fatti di Salerno, bypassato la tragicomica nocerina nel derby mai sbocciato dell’Arechi. Volutamente. Primo, perché ha gareggiato chiunque, nella palestra dei commenti. E, tante volte, una voce in più non serve. Secondo, perché la retorica facile non ci coinvolge. Terzo, perché spigolare tra le debolezze del sistema, l’inutilità di certi provvedimenti di palazzo, le contraddizioni delle norme e delle regole, l’inefficacia di certe misure preventive, lo strapotere di alcune frange del tifo italiano e i conflitti di tanti interessi significa sprecare troppe parole, senza peraltro giungere ad alcun obiettivo. Quarto, perché troppi particolari hanno finito per traghettare una buona fetta dell’opinione pubblica verso soluzioni semplicistiche. Tempo dopo, però, di una cosa siamo ormai sicuri: qualcosa di grave è accaduto. Prima, durante e dopo quella partita che la Nocerina ha rinunciato a giocare, sulla spinta delle minacce della propria tifoseria: ancora da provare, ma evidentemente concrete. Prima, durante e dopo quei fotogrammi senza logica (perché, a quel punto, giocare? Sì, è vero, conosciamo la risposta, problemi di ordine pubblico, ma non ci convince). Mentre cominciano a delinearsi le posizioni, i punti di vista e le responsabilità. E anche le linee di difesa. L’ultima, in ordine di tempo, è quella della Nocerina, ormai seriamente preoccupata di dover di pagare duramente, anche con l’esclusione dal campionato e dalla prossima serie C unica (anche il rinvio del match successivo a quello di Salerno, in programma ieri con il Lecce, seppur immotivato nella sostanza, qualcosa lascia pensare). Sì, dice il direttore generale Pavarese, le minacce degli ultras ci sono state, tutti sapevano, anche la Questura: la confessione ai microfoni di Rai Sport. Se è vero, perché non dirlo. Se non é, invece, davvero così, perché non tentare anche questa strada per parare il verdetto che si sta abbattendo. Ma Pavarese, se qualcosa abbiamo capito, questa volta non mente. Mentiva sciattamente e ingenuamente, magari, proprio il giorno del derby, quando avrebbe voluto farci credere a cinque infortuni reali, nello spazio di pochi minuti. E all’esigenza di dover consumare tre cambi dopo pochi secondi di gioco. Chissà se, almeno oggi, avrà realizzato il basso profilo di certe dichiarazioni affrettate o, peggio, costruite artatamente per farsi beffa dell’intelligenza di ognuno di noi.

giovedì 17 ottobre 2013

L'Italia dei deboli e l'impunità dei forti

Dicevamo: le parole sono pesanti. E vanno usate con intelligenza. E serietà. Altrimenti, meglio lasciarle ad altri. Parlare (e pensare) male non è come scrivere colpevolmente, ma il problema rimane ugualmente. Anche se le sillabe, più o meno infelici, scivolano – quasi inosservate – in uno stadio. O all’interno di una tribuna stampa. Dove sarebbe normale attendersi una migliore qualità intellettuale, se non altro. Non solo di questi tempi, in cui continuiamo a discutere troppo spesso di razzismo e di territorialità: ma sempre. Il dottor Baldassarre è un medico assai conosciuto nella sua città, Foggia. Si è occupato di antidoping, per anni. E, da anni, coltiva un’occupazione parallela: scrive. E, in alcuni salotti televisivi, commenta. E’ iscritto all’Ordine dei Giornalisti, elenco pubblicisti. E, ovviamente, del Foggia è sostenitore appassionato. Possiede, come tanti, precise idee politiche: diciamo pure di tenore decisamente nostalgico. Che non ha mai nascosto, peraltro. Baldassarre, però, durante il minuto di silenzio osservato in tutti i campi italiani, in memoria dei migranti annegati nelle acque tra Lampedusa e l’Africa, non più di due domeniche addietro, ha oggettivamente sprecato un’insostituibile occasione per tacere. Una frase di cattivo gusto, ecco. Un po’ grossolana, becera. Ed anche retorica. Diseducativa, se vogliamo. Prontamente riportata da chi c’era, duramente censurata dall’Ordine stesso e, infine, sanzionata con un daspo. Cinque anni, in tutto: esattamente il tempo in cui Baldassarre dovrà disertare gli stadi e frequentare la questura per la firma di prassi. Condanna esemplare, come hanno detto e scritto. Eppure, per quel che ci riguarda, anche esagerata. D’accordo, le parole pesano. E uccidono quasi quanto le armi. Ma cinque anni sono una pena smisurata: soprattutto se comparata al castigo inflitto – quando avviene – a chi, dentro e fuori del campo, nell’anonimato di una curva o di una strada, commette qualcosa di molto peggio. A chi, tuttavia, possiede un volto conosciuto o riconoscibile e, molto spesso, lascia una firma indelebile, impunemente. Pretenderemmo, a questo punto, retate settimanali: in ogni angolo d’Italia. E pene automatiche. Ma sappiamo che non avverrà: Questo è il Paese di sempre: forte con i deboli e debole con i forti.


martedì 15 ottobre 2013

La democrazia e il peso delle parole

Mario Balotelli è quello di sempre: teso, ruvido, nervoso. Un ragazzo un po’ così: a cui la vita qualcosa ha tolto, in passato. Restituendogli, più avanti, parecchio. Dal carattere forte, ma in formazione. Talvolta inopportuno: nelle parole, nei comportamenti. Da sembrare addirittura arrogante. Refrattario a certe consuetudini e certe regole: scritte e non scritte. Un attaccante rampante ed esplosivo (sotto qualsiasi angolazione) di ventitre anni che, sempre più spesso, si attira ogni genere di complicazione: per leggerezza, superficialità, ingenuità o sciatteria. Dimostrando esattamente quello che è: un professionista del pallone universalmente considerato, ma anche disattento a certe dinamiche. E, comunque, totalmente inserito nella sua quotidianità: in cui è preferibile apparire, prima di tutto. Ma pure ingiustamente collocato al centro di qualsiasi questione: anche in quelle più grandi di lui. E, per questo, difficilmente gestibile. Di Balotelli, in realtà, si parla troppo, da sempre: questa è la verità. Persino quando lui stesso ne farebbe a meno. Ancora prima che ci metta del proprio. Come nelle ultime quarantotto ore. Il suo tweet, in prossimità dell’incontro tra la Nazionale di Prandelli e l’universo della legalità promosso dai dilettanti del Quarto, non è passato inosservato: devitalizzando, seppur in parte, lo spessore dell’iniziativa a cui la Federazione e lo stesso coach sembravano e sembrano tenere parecchio (il codice etico, di questi tempi, è cosa seria assai, per fortuna). E proprio Prandelli, più di altri, non ha affatto gradito. Trovando immediatamente una contromisura che, di certo, non possiede tutti i criteri di una soluzione democratica e che, perciò, fa già (e farà ancora) discutere: ai prossimi Mondiali brasiliani, per i quali l’Italia è già qualificata, verrà vietato a chiunque l’utilizzo dei social network, cioè uno dei simboli indiscussi di una generazione proiettata nel mondo della comunicazione. Quella stessa comunicazione che molti protagonisti, soprattutto tra i più giovani, faticano a decodificare e utilizzare. Sarà poco democratico, Prandelli. Ma il concetto, in fondo, è giusto: le parole sono pesanti. E, talvolta, non meritano di essere pubblicate.  




lunedì 7 ottobre 2013

Evacuo e l'intolleranza da derby



Frizioni, rivalità e male parole. Cose da derby. Da partite speciali. Nella metropoli, come in provincia. Eppure, ci sono partite più speciali di altre. In cui si alza lo steccato dell’intolleranza. Benevento e Nocerina viaggiano divise da profonde inimicizie: sugli spalti, ovviamente. E Felice Evacuo è l’artigliere principale dei sanniti: uno che, in categoria (la terza serie) può scavare la differenza. Uno che, anche, possiede mercato: e che, in più occasioni, si è ritrovato a cambiare casacca. Pure nel corso dell’ultima estate: ritornando da un’avventura di sette mesi consumata proprio a Nocera. Bene: Evacuo segna (ma il direttore di gara annulla) e non esulta: ormai è consuetudine. Che fatichiamo a condividere. E, sin qui, tutto bene: anche se, in curva, qualcuno potrebbe persino non aver gradito, chissà. Il Benevento, però, si impone ugualmente, alla fine. Ma, proprio alla fine del derby, accade quello che non dovrebbe accadere: l’attaccante, con tutta la squadra, saluta il proprio pubblico e, prima di rientrare negli spogliatoi, si permette di omaggiare con un applauso anche la sua ex tifoseria che lo chiama. Tutto normale. Anzi, no. La reazione della torcida beneventana è veemente ed esagerata. E si riassume nell’inopportuno comunicato diffuso immediatamente dopo:  «Il signor Felice Evacuo entro stasera deve effettuare la rescissione del contratto e contestualmente è pregato di lasciare la città. L'eventualità che Evacuo possa presentarsi alla prossima seduta di allenamento sarà considerato un affronto alla Curva Sud». Tutto vero, avete letto bene. Cose che accadono, quando il tifo organizzato si arroga il diritto di determinare i destini di chiunque e, in fondo, del calcio stesso. Più calibrata, piuttosto, è la risposta di Oreste Vigorito, presidente del club: «Certi gesti andrebbero presi per quello che sono: sportività». Sì, sportività. Quella condizione strana che l’italiano medio, tante volte, ignora e rifugge. Che le curve, ancora troppo spesso, denigrano e combattono. Che il calcio, giorno dopo giorno, disconosce e annulla. Lasciandoci un senso di tristezza infinita. E facendoci capire quanto il pallone assomigli, sempre di più, alla nostra quotidianità. Dove la normalità è un universo distante, desueto, impraticabile. E l’anormalità è regola.



lunedì 30 settembre 2013

I veleni e il silenzio

E, dal momento che ci siamo, continuiamo. Agli italiani, in fondo, piace così. E anche ai padroni del movimento calcistico nazionale: colpevoli, soprattutto, di non adeguarsi alle novità tecnologiche che, talvolta, potrebbero attutire le frizioni. Forse perché, senza, è più agevole manovrare i destini altrui e radiocomandare il gioco. Sette giorni dopo, un altro episodio di cattiva gestione dell’argomento offside spazza la serie A. Ne soffre, ovviamente, una società solitamente maltrattata da decisioni e atteggiamenti arbitrali (il Torino). E ci guadagna, ovviamente, un club politicamente forte (la Juventus). E’ solo un caso (o forse no) che la partita sia innanzi tutto un derby: uno di quegli avvenimenti che si caricano di tensioni suplettive e che trascinano polemiche infinite, resistenti nel tempo. Ed è una coincidenza che proprio la Juve benifici, nello spazio di soli sette giorni, di un altro aiuto provvidenziale. Provvidenziale nell’immediato (il match è tirato, il Toro si cautela tenacemente, la formazione di Conte zoppica e il risultato non si sblocca) e in prospettiva futura (logica alla mano, se i bianconeri oggi stentano e vincono ugualmente, quando recupereranno il proprio passo dovrebbero scavare una distanza incolmabile dagli avversari). Provvidenziale, certo. Ma anche pericoloso: per il calcio, in generale. Perché, è inutile fingere di ignorarlo, anche e soprattutto questi particolari derubano il campionato della sua regolarità e il calcio della sua attendibilità. Sforzarsi a parlare di buona fede, poi, sarà anche politicamente corretto: ma la gente che vuole capire e pensare comincerà davvero a non crederci più. Sempre che ci creda ancora.  Anche questa volta, però, la radiografia del misfatto ci interessa poco. Chi ha visto le immagini, sa. E chi vuole accontentarsi gode. Infastidiscono di più, semmai, le repliche e le controrepliche del club che si è avvantaggiato della nuova (ennesima) situazione. Commenti, post e tweet ufficiali, alcuni persino grossolani (certe dichiarazioni del tecnico, ad esempio, ci sembrano tatticamente anche appropriate, ma eticamente inopportune): c’è di tutto. D’accordo: difendersi è prassi normale, in ambito dialettico. E il confronto è la base della democrazia. Ci sono momenti in cui, però, il silenzio semplifica le cose e riduce gli attriti. Il silenzio: non tanto come ammissione di colpa. Ma come gesto di distensione. Qualcuno non capirebbe ugualmente, però qualcun altro gradirebbe, magari. I veleni, almeno, rimarrebbero tutti da una parte: dalla parte degli sconfitti. Giustamente o ingiustamente, non importa: ma piegati da un’ingiusta valutazione arbitrale. E, invece, i veleni circoleranno per un po’ anche dall’altra parte della barricata, quella premiata da un episodio chiarissimo. Senza evaporare. Anzi, trasformandosi chimicamente in spocchia.


martedì 24 settembre 2013

L'aplomb e il miracolo della memoria


Scioccamente, ci eravamo riproposti di non ritrovarci sul luogo dei delitti di ogni domenica (o di ogni venerdì, o sabato: tanto, si gioca ogni giorno, ormai). Di dribblare le analisi e le polemiche che gocciolano da ogni singolo episodio controverso. Ogni singolo episodio che edifica una partita e, certe volte, un campionato: l’offside occultato o negato che offre l’urlo del gol, l’intervento mal interpretato che si trasforma in penalty o quello falloso che svicola nella lista dei non pervenuti. E, con l’episodio, tutto quello che segue: per un giorno, una settimana, un mese. O un anno. Ma il campionato è ripartito e si fa già molto sul serio: dunque, qualcosa accade sempre. E la nostra ingenuità frana con le migliori intenzioni. Eppure, non è tanto sull’episodio, questa volta, che ci concentreremo. Ma sugli scampoli di fair play che lo tallona. La rilassatezza che segue il fatto, intanto, va sottolineata e benedetta: a Verona la Juve supera il Chievo, segnando il punto decisivo dopo aver beneficiato di un errore evidente dell’assistente di linea Preti (recidivo, nello specifico: ma non infieriamo), che sbugiarda e condiziona il direttore di gara, De Marco. Il fuorigoco di Paloschi non c’è, punto e basta. E la marcatura andrebbe, invece, convalidata. Sannino, coach clivense, è uomo di stile e di sport e accetta la decisione senza agitarsi. Come il presidente Campedelli, come tutto l’ambiente. Voto: nove. Dall’altra parte, sùbito dopo, parole sincere di stima per l’aplomb degli avversari. Il tecnico juventino Conte, anzi, fa anche di più, ammettendo il peso specifico di quello che possiamo ritenere un regalo involontario e dettando frasi distensive. Del tipo: il comportamento del Chievo è un esempio per tutti, chiunque dovrebbe ragionare così, quando l’errore arbitrale premia e anche quando penalizza. Voto: nove e mezzo. Sottoscriviamo la bontà dei concetti: consapevoli, tuttavia, che certi pensieri non si duplicheranno facilmente. Mentre aspettiamo che proprio lui, Conte, faccia altrettanto alla prima occasione negativa, se e quando accadrà. La stagione passata, ad esempio, la possibilità gli passò davanti un paio di volte, non di più. Ma transitò invano. Però, forse, erano altri tempi. Che, adesso, son cambiati. Fingiamo di crederci. Confidando nel miracolo della memoria.

sabato 24 agosto 2013

Sheik e la sconfitta di noi tutti

Nessuno dei cinque continenti sembra ancora abituato ad assorbire sconvolgimenti concettuali, a deglutire storie di ordinaria umanità, a tollerare il prezzo della diversità, a gestire la democrazia. E il sesto, quello del pallone, ancora meno. Se il calcio è guerra di religione, non c’è assoluzione per niente e per nessuno. Le regole non scritte impongono la propria legge: tutto ruota attorno all’onore. Della maglia e delle fede di chi vive per la maglia. L’onore, prima di tutto: e stop. Che non va scalfito: soprattutto dall’avversario. Il più interessato, cioè, a denigrare, ad insultare. Il calcio, del resto, è un circolo tribale. E guai a ridursi nelle condizioni di essere derisi. E trafitti. Emerson Sheik è un attaccante brasiliano, in dote ad una delle formazioni più amate e decorate del paese sudamericano, il Corinthians. Ovvero, anche il club tradizionalmente più vicino alla materia dei diritti del singolo (ricordate la Democracia Corintiana instaurata da Sócrates e compagni nel mezzo della dittatura militare, negli anni ottanta del secolo appena trascorso?). Ecco, Sheik è una persona normalissima. Con una famiglia già formata. Eppure, ritratto – per scherzo, per gioco, per quella strana mania di spedire in rete tutto ciò che ci riguarda e che riguarda chi è prossimo a noi – in una foto compromettente, scattata e postata da un social network. In cui si scambia – per scherzo, per gioco, per quella strana mania di voler vivere ogni momento sul palcoscenico – un’effusione con un altro uomo: facilmente decodificabile tra quelle sconvenienti. E ovviamente condannata: in particolare dalla gente che tifa per la formazione paulistana. Assalita, dunque, nell’intimo del proprio orgoglio, assaltata nei meandri della propria fede. E, comprensbilmente, nuovo oggetto di scherno nemico: sponda Palmeiras, soprattutto. La gente, il mondo e, in particolare, il pallone non sono ancora preparati alle rivoluzioni culturali, dicevamo. Inutile girarci attorno. Così, la Fiel, la torcida corintiana, ha immediatamente preteso un chiarimento. Anzi, pubbliche scuse. E Sheik, travolto dai riflettori, ha vissuto male questo momento inatteso: pagando il nervosismo accumulato anche con l’espulsione in Coppa del Brasile, nel corso di un match (perso) contro la Luverdense, formazione di terza serie. Fino a cedere, sotto la pressione delle convenienze. Quindi, rammarico e autocensura, tutto in un incontro appositamente organizzato con la tifoseria organizzata. In sostanza, una formale richiesta di perdono: per non aver commesso, è questo il lato più triste della storia, alcun crimine. E, tra le parole spese, una motivazione di fondo: «In un ambiente pieno di rivalità e provocazioni, qualsiasi questione può essere motivo di speculazione». Ecco l’ennesima, irrimediabile sconfitta. Di tutti.

venerdì 2 agosto 2013

Calcio, affari e l'incertezza delle regole

Blatter spinge, l'International Board si adegua, la norma cambia. Il potere del presidente, monarca assoluto del pallone che ancora riesce a sopravvivere a se stesso, si estende. E si riduce quello dell'unico organo calcistico autenticamente indipendente, almeno sino a pochi anni fa. Da questa stagione, la regola del fuorigioco, concetto di mille battaglie verbali, si completa e si complica. L'offside, del resto, è quel buco nero che inghiotte tutto e tutti: anche la storia e la tradizione. Il pallone si evolve: succede, quando conviene a chi può. E qualunque cosa è possibile, nel nome del progresso. E del business. La new economy del calcio vuole un gioco più facile: che, proprio per questo, diventa sempre più difficile. Un gioco che, oggi più di ieri, sappia ingolosire chi muove i fili. E, dunque, chi ne trae profitti. La norma, in sostanza, si piega alle logiche della convenienza e si abbruttisce. Orami è deciso: dalla stagione agonistica appena partita, quando un giocatore si dirige verso la palla, andrà considerata anche la distanza e la possibile interferenza dell'attaccante nei confronti del difensore. Materia buona per alzare il quoziente di discrezionalità del direttore di gara: esattamente quello di cui faremmo volentieri a meno. Dunque, per ingigantire il peso dele polemiche, delle accuse e degli abusi. E per alimentare il livello di acidità dei nostri campionati, ovviamente. L'equazione è semplice: meno vincoli regolamentari, più occasioni da gol, più spettacolo. Sarà. Persino Nicchi sembra aver bocciato l'idea. Alla quale, lui per primo, dovrà adeguarsi. L'allenatore degli arbitri italiani prevede nuovi bordellacci infami: e fa bene a temerli. Tornare indietro, però, non si può: è già tutto deciso. Seguendo un disegno chiaro: difettando la certezza della pena (o, in questo caso, del regolamento), amministrare il sottobosco e dirigere il traffico in bilico tra il lecito e l'illecito è più facile. Nel pallone come nella quotidianità di tutti noi. E chi ci governa lo sa bene.

martedì 4 giugno 2013

Milan, chi vince e chi perde

Tante, troppe settimane per incrociare il punto di partenza. Tanti, troppi giorni per genuflettersi di fronte alla realtà di un contratto. Che, talvolta, anche in Italia occorre rispettare. Tante, troppe pagine di giornali, minuti di televisione pubblica e privata e conversazioni sprecati: per poi abituarsi, tutti, ad una decisione datata nel tempo. Minacciata, sì, ma anche meravigliosamente inattaccabile dai fatti: che sono, poi, gli ostacoli economici, gli intrighi di Palazzo e il buon senso che, per una volta, la piazza - tradizionalmente umorale, puntualmente forcaiola - riesce a riesumare e ad utilizzare. Anche in questo caso, però, non c'è la notizia. Perchè la conferma di Allegri sulla panchina del Milan notizia non è. Il trainer livornese resta dov'è: come da accordi intercorsi in epoche più o meno remote. E, appunto, sottintesi tra le parole di un contratto. Che Berlusconi, il garnde inquisitore e, si dice, anche il grande sconfitto, deve deglutire con amarezza. Rinviando il discorso con Clarence Seedorf, successore già designato del coach che rimane. Delegittimato, Allegri, da incursioni verbali e manovre chiarissime: eppure, disposto - nonostante la certificata mancanza di feeling con la proprietà - a proseguire il viaggio con il club di via Turati. E a rinunciare alle proposte pressanti della Roma. E sì, perchè l'allenatore toscano fermo non sarebbe rimasto, comunque. Gratificato, oltre tutto, dalla robusta buona uscita che il Milan non ha saputo (o voluto) garantirgli. Perde Berlusconi, vince Allegri: dopo una prima analisi dei fatti, sembra davvero così. Non ci giureremmo, comunque: intanto, perchè il patron ottiene in cambio, come una nota ufficiale fa trasparentemente affiorare, una condivisione di vedute tra la panchina e la prima scrivania. Una specie di collaborazione complicata e, forse, anche pericolosa: diciamo pure così. Allegri, poi, dovrà necessariamente accontentarsi di quanto il mercato consentirà alla società: prendere o lasciare. E poi sa benissimo che, da qui in poi, niente gli sarà perdonato. Il quadro, adesso, è più nitido. Berlusconi perde qualcosa, Allegri non vince. Qualcosa, per dirla tutta, concede pure la dinastia del presidente: convinta com'era di liberarsi della presenza scomoda di Galliani, tutor máximo di Allegri. Passando la linea paterna, Barbara Berlusconi avrebbe oggettivamente obbligato l'amministratore delegato a sgonfiarsi. Ed è proprio il capolavoro tattico e diplomatico di Galliani a scolpire questa storia. E' proprio questo Richelieu dei giorni nostri a ritagliarsi un successo rumoroso e totale. Spartendosi i meriti con le curve del Meazza e la squadra, sponsor di seconda fascia dell'allenatore. Utili nella corsa all'obiettivo: ma assolutamente impotenti, anche abbastanza presto, se la stagione milanista dovesse partir male. O non troppo brillantemente. Perchè il consenso popolare è etereo e vago. E perchè una squadra non si cambia, così all'improvviso. Però un allenatore, prigioniero di un contratto e di qualche clausola non scritta (ma ampiamente pubblicizzata), sì.

lunedì 3 giugno 2013

Gattuso, personalità e sana incoscienza

Gennaro Gattuso è un combattente abituato alla battaglia, votato alla sfida. E la sua nuova sfida si chiama panchina. Ci ha già provato al Sion, in Svizzera, ancora con la mansione ufficiale di leader sul campo, di giocatore di lotta e prestigio. Ma l'Italia è un'altra dimensione. E le panchine della penisola pretendono e scottano di più: malgrado l'esperienza al di là del confine sia maturata al fianco di un presidente volubile e scomodo. Partire dalla serie B è l'ideale: gavetta pregiata, distanze minime dal pallone che conta davvero. Certo, però, che Palermo, nell'universo della seconda serie, è un'altra cosa. Per il passato (quello recente, soprattutto) del club e per le esigenze di una piazza importante (la quinta realtà italiana, ricordiamolo), ancorchè delusa dagli ultimi eventi. E, innanzi ad ogni altro discorso, per la vorace inquietudine del suo patron Zamparini, il nemico numero uno di chi si siede sulla panca. Traduzione: ci vuole coraggio. Cioè: cominciare così, nella casa delle incognite, è una sfida dentro la sfida. Uno spreco supplementare di energie psichiche e nervose. Ma. in certe situazioni, serve anche personalità: che a Gattuso non manca. E un po' di sana incoscienza, anche. Quella che, forse, spinge un  allenatore che deve scalare il suo primo vero incarico di caudillo. E che, proprio per questa strana condizione, non possiede ancora nulla da perdere, sul piano dell'immagine. Una qualità che, di contro, sembra convincere anche Zamparini. Trovatosi, immaginiamo, di fronte ad un altro problema: convincere qualcun altro ad accettare la proposta. Perchè di tecnici lanciati verso una stagione di interrogativi se ne trovano sempre meno.

mercoledì 8 maggio 2013

E, dal Palazzo, silenzio imbarazzante

Silenzio imbarazzante. E, speriamo, anche un po' imbarazzato. Nelle ore e pure nei giorni immediatamente successivi ai festeggiamenti juventini, la Lega e la Federazione non sono intervenuti ufficialmente: nè per legittimare le rivendicazioni della società bianconera (che ha urlato il diritto di fregiarsi della terza stella e del trentunesimo titolo guadagnato, a fronte dei ventinove scudetti vantati), nè per bacchettare quella che sembra una prevaricazione alle più elementari regole del pallone. Operazione che ritenevamo e riteniamo ancora doverosa, oltre che automatica. Abete, il presidente federale, è in realtà apparso timidamente: complimentandosi con i vincitori e ribadendo che il suo punto di vista non è mutato. Senza approfondire, cioè: blindandosi in una posizione morbida, troppo blanda. Ci incuriosirebbe, allora, la reazione del massimo dirigente e del Palazzo tutto se, un giorno qualsiasi, il Torino dovesse cominciare a pubblicizzare i suoi otto titoli contabilizzati sul campo, invece dei sette riconosciuti. O se l'Inter dovesse arrogarsi il diritto di aggiungersi uno scudetto in più: per esempio, quello del cinque maggio di qualche anno fa. O se, altrettanto, dovesse fare la Roma. O la Fiorentina. E tutti quei club che si ritengono, a torto o a ragione, defraudati di qualcosa. Non solo negli ultimi quarant'anni.